Criteri ESG, definizione e liste, quali fondi sono davvero Low Carbon? -

2022-08-27 21:26:07 By : Mr. Vege Cai

Riflessioni pratiche sulla finanza "green" e sul metodo più puntuale per verificare se i titoli sono davvero sostenibili o se ci sono delle informazioni che è il caso di controllare prima di dare "la patente di sostenibilità"

Parliamo di Fondi d’investimento e criteri ESG, nello specifico dei Fondi orientati al comparto “Climate Change”.  Nella prima parte, pubblicata qualche tempo fa (chi fosse in preda alla curiosità la può trovare qui), ci siamo soffermati sui più diffusi indici di riferimento “Low Carbon”, con cui le SGR si confrontano e spesso usano come ispirazione per le decisioni d’investimento.

La domanda sulle differenze con i classici “world equity index”, che di certo non hanno la riduzione della CO2 fra le priorità, è sorta spontanea. Ora invece diamo un’occhiata ai titoli presenti nei fondi italiani che perseguono obiettivi d’investimento sul controllo delle emissioni: possono davvero definirsi Low Carbon?

Controllare effettivamente le emissioni GHG Scope 1-2-3, prodotte dalle aziende presenti nei portafogli dei Fondi Low Carbon, non è stato compito facile. Tale attività, teoricamente, dovrebbe essere svolta dai gestori dei Fondi ESG, i risultati dimostrano che non è così. In pratica, per ognuno dei 30 Fondi in tabella sono stati analizzati i primi 10 titoli in portafoglio e, per ogni titolo, è stata condotta una vera e propria indagine alla ricerca del report di sostenibilità 2020, non sempre disponibile sul sito della Compagnia. A volte, nei primi 10 titoli dei Fondi, si trovano altri Fondi, quindi, ad oggi, il database ottenuto conta diverse centinaia di titoli.

Questa la tabella dei Fondi presi in considerazione, con l’indicazione della tipologia di investimento sostenibile, art. 8 o art. 9.

Fare una classifica dei fondi per totale decrescente di emissioni CO2 può essere di effetto ma abbastanza inutile. Inoltre, se contiamo le aziende quotate che non forniscono i dati per lo scope 3 o, peggio, per nessuno dei parametri, l’ipotetica classifica sarebbe addirittura fuorviante. Fondi “a basse emissioni” che investono in società che rilasciano emissioni gassose per milioni di tonnellate è solo una delle incongruenze. Vediamone alcune.

Nella lista troviamo Chevron e Total ovviamente inarrivabili per totale emissioni ma RWE AG, società tedesca che non arriva al 10% del giro d’affari dei 2 giganti dell’energia, spicca con il doppio delle emissioni Scope 1 (dirette). Il motivo è il carbone. La Germania si affida alla “Lignite” per circa un quarto del suo fabbisogno energetico e RWE partecipa con 100 milioni di tonnellate estratte ogni anno. Evidentemente, questo aspetto non troppo “green” viene considerato marginale per via delle ricerche sulle energie rinnovabili, specialmente idrogeno, che la società sta conducendo. Verde speranza quindi!

Dicevamo che non tutte le azioni dichiarano il valore delle emissioni prodotte. Prima fra tutte Tesla, presente in Anima, Candriam, Euromobiliare e Mediolanum, che nel 2020 non ha dichiarato emissioni GHG, per lavorare su un proprio metodo di rilevazione delle emissioni. Nel nuovo report 2021, pubblicato a maggio di quest’anno, le emissioni GHG sono presenti come benchmark del proprio algoritmo di rilevazione.

Prima di maggio 2022, quindi, la società di Elon Musk rappresentava perlopiù un’incognita per i criteri ESG e sorge spontanea una domanda: su quali dati oggettivi si sono basate le considerazioni per assegnare i rating? Non solo Environment, anche la “S” di Social inizia a traballare in casa Tesla. E’ del 3 giugno scorso la notizia che il 10% dei dipendenti verrà licenziato per “sensazioni negative sull’economia”. Quindi seconda domanda: cambierà qualcosa quest’anno nella classificazione di sostenibilità di Tesla?

Veicoli elettrici e pannelli fotovoltaici sembrano godere di una fiducia incondizionata fra gli analisti ESG ma non sempre ciò che è comunemente considerato “energia pulita” equivale a meno inquinante o socialmente responsabile.

La costruzione di batterie e pannelli solari non può prescindere da alcuni minerali chiamati “terre rare” (o minerali critici), quali litio, nichel, grafite e cobalto. Proprio sul cobalto, elemento fondamentale per batterie e pannelli solari, sono in atto controversie e forti discussioni internazionali. Con circa il 60% dell’estrazione, la Repubblica Democratica del Congo è il primo produttore al mondo, Paese purtroppo famoso per le condizioni di lavoro nelle miniere e soprattutto per il lavoro minorile. Secondo l’Unicef, i bambini che lavorano nelle miniere della ex colonia belga sono circa 40 mila e molti di loro sono davvero molto piccoli e in età scolare, in particolare, tra i 6 e i 17 anni.

L’estrazione mineraria sappiamo essere altamente inquinante ma la produzione dei semilavorati non è da meno. Uno studio Bloomberg rivela che il 90% dei pannelli solari a livello globale è fatto con il polisilicio prodotto nella regione cinese dello Xinjiang. Il processo di lavorazione del polisilicio richiede altissime temperature e grandi quantità di energia che la Cina garantisce, per il 40%, con centrali a carbone.

Le emissioni gassose, però, non sono l’unico problema del fotovoltaico. La regione dello Xinjiang è al centro di denunce e sanzioni per le condizioni di lavoro forzato ai danni della minoranza etnica turcofona uigura. Fra le aziende presenti nei Fondi analizzati, Daqo New Energy è stata sanzionata dall’amministrazione USA per mancato rispetto dei diritti umani, aprendo un difficile contenzioso con la Cina che rivendica sul tema la “questione interna”. Le aziende Sunnova e Sunrun, inoltre, sono clienti diretti di JinkoSolar Holding, più volte sotto i riflettori per gli stessi motivi, sempre nella regione dello Xinjiang.

La componente “Social” apre dunque varie considerazioni sull’opportunità di investimento in certi titoli ma torniamo al tema delle emissioni. A questo punto, diventa interessante notare come i titoli del comparto “Solar”, presenti nei Fondi analizzati, abbiano perlopiù sottostimato, se non omesso, la valorizzazione dello scope 3.

Lo scope 3 dev’essere valorizzato considerando le 15 categorie di cui è composto. Alla categoria 1 si trova la seguente descrizione “Estrazione, produzione e trasporto di beni e servizi acquistati dalla società segnalante nell’anno di riferimento”. La sola quantificazione della categoria 8, emissioni prodotte dai viaggi di lavoro dei propri dipendenti, dovrebbe essere considerata truffa ai danni degli investitori finali. Questo vale anche per tutti i produttori di Semiconduttori e Microchip e per tutte le aziende del comparto tecnologico.

Di NVIDIA abbiamo già parlato nel precedente articolo, con oltre 50 società di estrazione mineraria fra i fornitori, le emissioni di Scope 3 2020 sembrano quantomeno simboliche. La società ha anticipato che, con l’esercizio successivo, avrebbe esteso il monitoraggio puntuale a tutti i partner della catena del valore ma, alla fine di giugno 2022, il report 2021 non è ancora stato pubblicato. ONSemi ha inserito in Scope 3 solo i viaggi di lavoro dei dipendenti mentre NXT il solo trasporto delle merci. Texas Instruments semplicemente non ha pubblicato alcun dato di Scope 3.

Altra parentesi. Dopo alcuni episodi nel 2016, con lo scoppio della guerra in Ucraina sono riprese le segnalazioni di microchip delle aziende in esame in droni militari ed altre armi “intelligenti”. La discussione però è ancora in corso e non è stata provata la vendita diretta per questo scopo. La società Reuters, in un rapporto dell’aprile di quest’anno, conferma le segnalazioni, soprattutto in armi russe, e riporta la smentita di quasi tutte le aziende interpellate, con l’eccezione di Texas Instruments che non ha risposto né commentato.

Alcuni dei fondi d’investimento presi in esame, investono in altri Fondi. La ricerca, come si diceva in apertura, si amplifica di molto, dovendo analizzare i titoli al termine della catena.

IL Fondo “Eurizon ESG Target 40”, art. 8 del regolamento SFDR, investe per il 18,91% in “EF BOND SHORT TERM EUR T1 CL Z”, altro fondo Eurizon ma non ESG (art. 6 SFDR). Con il secondo titolo, un BOT al 10,04%, si arriva a quasi al 30% del totale investito, per una gestione non troppo “attiva”, diciamo. Meglio riesce a fare il fondo “Eurizon Approccio Contrarian ESG”, sempre art. 8, che con i primi 4 titoli (3 Fondi Eurizon e 1 Epsilon) raggiunge il 55,82% del portafoglio. Fra le pratiche passate ai colleghi, spicca il 10,39% di “Eurizon Absolute High Yld” su cui si potrebbe scrivere un articolo dedicato, visti gli investimenti in industrie petrolchimiche (BRASKEM, Repsol, Glencore che da sola emette 295 mil. ton/anno CO2), acciaierie (ARCELORMITTAL, THYSSENKRUPP), industrie minerarie (VOLCAN CIA MINERA SAA, ANGLO AMERICAN PLC con 226 mil. ton/anno CO2, Antofagasta PLC e BHP la più grande società mineraria al mondo, 421 mil. ton/anno CO2). Eppure, anche Eurizon Absolute High Yld è sotto art. 8 SFDR.

Anche il fondo “Euromobiliare Green 4 Planet A”, art. 9 SFDR (quindi con maggiori restrizioni), sembra prediligere la gestione in outsourcing, con ben 5 fondi di case terze nei primi 5 titoli. Uno dei 5 è “BNP Paribas Energy Transition”, già citato in precedenza per gli investimenti in società attive nei settori fotovoltaico e batterie al litio, che comprende anche Generac Holdings Inc e Plug Power Inc che non hanno presentato dati sulle emissioni mentre Engie SA ha indicato dati assolutamente senza senso. Resta il dubbio, in questo caso, di come si sia formato il rating ESG che ne ha permesso l’investimento. Il delegato maggiormente (o meno) rappresentativo del fondo Green 4 Planet è “Schroders Global Energy Transition”, che fra i primi 10 titoli detiene Volkswagen, 376 mil ton/co2, Nexans, 240 mil ton/co2 e Johnson Controls International, 122 mil ton/co2. Su quest’ultima azienda, peraltro, pende una causa intentata dallo Stato del Wisconsin per contaminazione da PFAS di falde e terreni.

Nell’analisi sono state prese in considerazione le sole società quotate presenti nei Fondi d‘investimento, tralasciando quasi completamente il comparto obbligazionario e governativo. Ciò non significa che vada tutto bene da quelle parti. Molti gestori, forse per andare sul sicuro con la quota di “bilanciato”, hanno inserito nei propri prodotti finanziari bond di vari Paesi. In questo caso, i titoli di Stato Francia potrebbero essere annoverabili nella quota d’investimento sostenibile, alla luce del recente inserimento dell’energia nucleare nella lista delle attività “green” (la Francia trae dal nucleare il 70% dell’energia, e ne vende parte all’Italia). Ma si può dire lo stesso dei bond tedeschi, visto l’uso del carbone per più di un quarto del fabbisogno energetico nazionale? Percentuale peraltro destinata a salire il prossimo inverno a seguito della crisi energetica causata dal conflitto in Ucraina.

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